“Auger in calo. Un polipo coi pattini… ah… bella storia… Potrei imbastire un circo e tirare su qualche credito davanti all’Hole. E rifornirmi di Auger… siamo quasi all’asciutto ormai… Storia ostile, fratello… proprio una storia ostile…”
Kanna era uno dei rari punk dello Sprawl che andava per i quaranta, anche se a guardarlo in faccia poteva sembrarti tuo nonno. Di solito quelli come lui facevano fatica ad arrivare alla trentina, e poi quasi magicamente scomparivano. I più li ritrovavi nei vicoli in una pozza di vomito sanguinolento, mentre altri venivano confinati nei laboratori biomeccanici ed usati come cavie da esperimento (di solito questo accadeva perché avevano dei debiti da saldare). Ma quelli meno fortunati, appena comparivano i primi segni delle mutazioni causate dalle droghe sperimentali, spesso messe sul mercato segretamente dalle multinazionali dello Skyline, si andavano a nascondere tra le rovine degli edifici vicino al Muro, o addirittura nei tunnel della vecchia metropolitana abbandonata. Invece Kanna era un tipo tosto, e dopo quasi trent’anni di tossicodipendenza, continuava imperterrito la sua strisciante vita di drogato. La cresta azzurra che amava sfoggiare da giovane non c’era più. Una calvizie crudele lo aveva lasciato con un’ampia piazza sulla testa, ma per rimanere in tema cromatico lui continuava a tingersi i pelucchi sotto e dietro le orecchie con la sua solita tinta cobalto.
Caracollava con improbabile sicumera su un lato di Amberly Road, nel distretto conosciuto con il nome di Niwa, ribattezzato così dal principe Haga in persona, l’uomo più potente dello Sprawl, a detta di alcuni. Sapeva che gli appartamenti della zona erano abitati da gente estrosa, amante degli oggetti arcaici, che si credeva possedessero proprietà magiche… per Kanna le uniche proprietà magiche di sua conoscenza erano quelle dell’Auger, il sintho-acido più in voga del momento. Una mezza foglia sotto la lingua e potevi vedere tutti i draghi che volevi.
Il piano era semplice, anche perché alla testa del punk non si poteva certo chiedere di elaborarne uno più complesso. Perciò si sarebbe infilato nel primo condominio col portone aperto, avrebbe cercato un appartamento privo di telecamere o sistemi di sicurezza del cazzo, e infine avrebbe fatto saltare la serratura con il mezzo pugno di gomma esplosiva che gli aveva venduto il suo amico Tigre quella stessa mattina, tra una birra calda e due confetti di bufotenina sintetica. Facile come pisciare da ritti.
Scelse l’alloggio numero 232, una porta nera e liscia con una vecchia serratura a chiave dentata, di quelle che non si usavano più da almeno un paio di decenni. La presenza di uno zerbino, fregio abbastanza atipico nello Sprawl, era un indizio evidente che il locale fosse abitato, ma il punk si era prima accertato che in quel momento non ci fosse nessuno al suo interno. “Davvero troppo facile” pensò, mentre modellava con il pollice la plastilina intorno alla toppa rotonda della serratura. Contò cinque passi all’indietro e valutò che come distanza poteva andare. Estrasse una curiosa semiautomatica dall’impugnatura rosa shocking, che aveva rubato anni prima a una vecchia compagna di buco, mirò con mano tremante e lasciò partire un colpo. Se ci avesse provato altre sei volte, per il totale dei proiettili nel caricatore, sicuramente non avrebbe mai centrato il bersaglio, ma fortuna volle che proprio al primo colpo la serratura esplodesse, scaraventando schegge di legno ed ingranaggi metallici per tutto il corridoio. “Ganzo!” pensò, infilandosi la pistola tra i jeans e la nuda pelle per fare poi il suo ingresso nell’appartamento. Rimase a dir poco sconcertato quando si avvide che gli unici oggetti presenti nel piccolo monolocale erano un semplice tavolo di legno, una sedia, un materasso sul pavimento, una cesta di vimini e un bollitore per il tè. L’ambiente, nonostante l’evidente semplicità, era tirato a lucido, il letto perfettamente rifatto, le lenzuola bianche e splendenti, il tavolo immacolato. Kanna si avventò sulla cesta nella speranza di trovarci qualcosa di valore, ma quando l’aprì rimase ancora una volta deluso. Conteneva solo dei vestiti, una strana veste rituale, forse da prete, e un paio di sandali. Vi era anche un libro… “Un maledetto monaco!!! Centoventi crediti di gomma esplosiva per entrare nel buco di uno stupido monaco!!!” imprecò Kanna, scaraventando il tomo dall’altra parte della stanza.
In quel momento un uomo alto con indosso una specie di saio marrone e un cerchio dorato dipinto sulla fronte, fece il suo ingesso nel locale. Sul volto sfoggiava un’espressione serena ed antica, e un sorriso pieno di beatitudine. Guardandolo Kanna si chiese che tipo di droga lo facesse stare così bene, prima di realizzare di essere stato colto sul fatto. D’istinto estrasse la pistola e la puntò verso l’uomo, che rimase impassibile e continuò a sorridergli.
– Non ce ne sarà bisogno fratello… abbassala, qui nessuno vuole farsi del male…
La voce era così serena e melodica che a Kanna sembrò quasi di trovarsi dentro un incantesimo, e senza protestare abbassò la mano con la semiautomatica. Un senso di vergogna, a lui quasi sconosciuto, lo ghermì. Si mosse verso la porta con l’intenzione di andarsene il più lontano possibile da quella stanza, ma il monaco si frapponeva tra lui e l’unica via d’uscita.
– Vuoi già andartene? Non hai portato via niente…
Kanna cercò l’inganno tra quelle strane parole, ma non ne trovò alcuno.
– Hai fatto tanta strada per venire qui a rubare qualcosa, e te ne vuoi ripartire senza nulla? Lascia che ti dia questo pezzo di formaggio che ho appena comprato, e questo cartone di vino… lo so, non è un granché, ma ormai non non lo si trova quasi più in bottiglia… – E detto ciò, l’uomo alto offrì al vecchio punk la borsa della spesa che teneva in mano. – C’è anche del pane…
Kanna non sapeva più cosa pensare… – Ma io…
– Prendi, dai…
– E voi?
– Non ti preoccupare… Io non ho fame…
Kanna afferrò il sacchetto, la testa china e strane lacrime che gli salivano agli occhi. Ringraziò con un lieve sussurro il monaco che si faceva da parte permettendogli di uscire, e conquistò il corridoio.
– Mi dispiace per la porta… – riuscì a dire.
– Oh, non ti preoccupare… – rispose lui, che ancora sorrideva.
Tornando sui suoi passi Kanna continuò a chiedersi sotto quale influsso potesse trovarsi quell’uomo; una droga, un incantesimo, un’idea… si, forse era come gli aveva sempre detto il suo primo pusher; non esiste droga più potente della fede.
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IL LADRO
I CODICI
Vorrei scrivere dei raccontini mistici ambientati a Soul City riarrangiando alcune piccole storie di spiritualità.
Seymour Gallagher ebbe un sogno profetico quella notte. La mattina dopo avrebbe incontrato per caso, in uno dei tanti malfamati vicoli dello Sprawl, un monaco dalla pelle color ebano e gli occhi come due smeraldi. Tatuati sul suo bicipite destro vi erano i codici per accedere ai conti correnti digitali della Simbat, colosso tecnologico di Soul City. Quei codici avrebbero di certo reso Gallagher l’uomo più ricco della costa.
Al suo risveglio il traveller non seppe dire se il sogno fosse stato di tipo naturale oppure indotto dalla matrice. La cosa lo turbò, perchè scoprire la fonte di un’esperienza onirica era uno scherzo da netrunner alle prime alle armi, e lui era decisamente esperto nelle arti della console. Era come se in qualche modo quel sogno fosse pervenutogli dall’esterno, e per questo motivo lo prese molto sul serio.
Avvolto nella sua felpa hoody, uscì nella pioggia finissima (probabilmente acida) di Misty Avenue, scansando abilmente con le sue sneaker nuove le pozzanghere formatesi durante la notte. Il vicolo lo aveva riconosciuto al volo e distava non più di dieci minuti dalla suo appartamento. Coprì la distanza in meno della metà del tempo, si appostò in fondo alla strada e attese, perchè non aveva di meglio da fare quel giorno, e forse di lì a poco sarebbe davvero diventato l’uomo più ricco di Soul City.
Il monaco non si fece attendere molto. Apparve in lontananza, un’ombra appena delineata nella pioggerella insistente. Seymour si avvicinò, non ben sapendo cosa dire. Lo colpì lo sguardo di quel gigante nero, vestito con un lungo soprabito marrone che ricordava più una tunica rituale che un impermeabile, e una croce d’oro scintillante sul petto. Aveva occhi verdi e innaturali, ed una pace antica sul volto.
– Tu hai codici, vero? – riuscì a dire balbettando il traveller.
Il gigante non rispose. Forse era muto. Forse non aveva bisogno di parlare. Fece un cenno con la testa, l’espressione del volto sempre uguale, e lentamente si alzò la manica del soprabito, mostrando un muscolo teso e gonfio, su cui spiccavano una serie di numeri e cifre e codici cirillici in sequenza. Seymour mise a fuoco quel braccio con la telecamera innestata nella sua pupilla destra e copiò la password con un semplice battito di ciglia.
– Grazie! – fu tutto ciò che riuscì a dire, prima di scappare da dove era venuto, certo di essere ormai in possesso della chiave per la felicità.
Seymour Gallagher riuscì ad accedere per davvero al conto della Simbat. Quello stesso giorno traseferì quindici trilioni di crediti su un conto criptato di un isoletta dei Caraibi, e a sera aveva già provveduto a farsi rilasciare un pass per accedere all’aereporto di Soul City. Due giorni più tardi si trovava su una delle spiagge più bianche del mondo, a sorseggiare un cockail con ananas e cocco non sintetici in compagnia di due splendide ragazze.
Dopo un anno di quella vita in cui aveva provato di tutto e di più, tornò al suo appartamento nello Sprawl, depresso ed avvilito. Tutti i soldi che aveva rubato non erano riusciti in nessun modo a colmare il vuoto che aveva dentro, anzi quel vuoto adesso era raddoppiato. E quella prima notte nel suo vecchio letto, tra il disordine e la polvere accumulatasi durante il tempo trascorso, ebbe un altro sogno: lo stesso monaco sarebbe passato il giorno dopo, nel medesimo vicolo.
Seymour si alzò all’alba e scese in strada, Quel giorno era una giornata di sole, ma nello Sprawl quasi non si notava, Raggiunse di corsa il luogo dove sapeva sarebbe avvenuto l’incontro, ed aspettò. Anche questa volta il monaco non si fece attendere. Era vestito come l’altra volta, e aveva sempre la stessa beata e pacifica espressione sul volto. Gallagher gli si avvicinò, anche se non sapeva bene cosa dirgli. Attese, un piccolo uomo disperato al cospetto di un gigante buono, che forse era muto.
Invece parlò.
– Posso fare ancora qualcosa per te? – chiese, con una voce da baritono.
– Non saprei… – rispose Seymour. – Mi chiedo quale ricchezza vi renda così sereno, e capace di rinunciare a tutto il denaro di quei codici. Come posso riuscire ad ottenere lo stesso vostro sguardo?
– Non esistono codici per ciò che chiedi, uomo. – E detto ciò, tornò da dove era venuto, un’ombra nel vicolo più buio di Soul City.