Il bambino lasciò cadere il suo secchiello pieno di sabbia e incominciò a strillare con le lacrime agli occhi. Il padre lo osservò per alcuni secondi prima di andarlo a consolare. Alle bizze non aveva mai dato troppo peso. Nel suo modo di vedere le cose da “grande”, i capricci erano quelle reazioni insensate che gli adulti avevano l’onere di correggere. Invece questa volta vide qualcosa che lo lasciò interdetto; il bambino era totalmente immerso nella vita presente.
Poteva la bizza di Matteo essere più reale dei continui flussi di pensiero che attraversavano anche in quell’istante la mente del padre?
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CAPRICCI
MOMENTO
Le cose non vanno così bene…
Sul tavolo del soggiorno un mucchio di lettere ancora chiuse e diligentemente impilate una sull’altra mi ricorda il mio conto in rosso. Sul frigo c’è ancora il post-it di Mirella con sopra una sola, esauriente parola: “Addio!” Il cordless intanto lampeggia rosso, segno che ci sono dei messaggi in segreteria che non mi va di ascoltare.
Rimango in giardino, col sole di marzo che mi accarezza la faccia, e un bicchiere di rosso che richiama dolcemente la mia attenzione. Ci siamo solo noi due in questo istante, il bicchiere ed io. Poi si vedrà…
IL CASO ARTHUR FINDLAY
Il direttore dell’Hotel Flora, rinomato albergo del litorale, mi contattò una mattina di luglio. Nel pieno della stagione, solo quattordici delle novantatré camere erano occupate, a causa dei cinque decessi avvenuti in rapida successione negli ultimi mesi. La polizia li aveva archiviati come suicidi, tutti avvenuti nei bagni dell’hotel, ma il direttore non credeva alle coincidenze, così contattò l’ultimo vero investigatore privato della costa; io.
Fu così che conobbi Arthur Findlay, pluriomicida, rilasciato due mesi prima dall’istituto per malattie mentali. Aveva preso alloggio nella camera 406 senza mai lasciarla.
Adesso dimorava negli specchi dell’hotel, e continuava il suo lavoro di morte.
IO SONO IL TEMPO
Io sono il tempo e tu non potrai fermarmi. Non ci provare neanche, è solo tempo sprecato, e a me non piace che mi si sprechi. Ci hanno provato in tanti a rallentarmi, alcuni volevano addirittura ingannarmi, ma io ho riso loro in faccia. Mi facevano davvero sbellicare… E adesso tu mi dici che è tutta colpa mia, che sono spietato, che sono il tuo peggior nemico. A queste tue accuse non posso che risponderti con una risata più forte, perché tu capisca che non sono io il tuo problema. Non sono il problema di nessuno. Io sono solo il tempo.
L’EMBOLO BIRBONE
Riusciva a tornare indietro nel tempo con un software di sua invenzione. Il primo milione di euro lo tirò su con le scommesse on-line, facendo sempre molta attenzione a non destare sospetti e attribuendo le vincite ad identità fasulle. Aprì diversi conti correnti in paesi che facevano poche domande e agevolavano il pagamento delle tasse. Divenne miliardario in poco più di tre mesi, che passò quasi interamente seduto davanti al computer. Da qualche giorno si era prefissato un traguardo, l’aggiunta di altro zero al suo patrimonio. Poi avrebbe smesso, si era detto.
Peccato che un embolo birbone gli tolse quell’ultima soddisfazione.
VISITA IN OSPEDALE
Dal mio letto d’ospedale dischiusi gli occhi e guardai alla mia sinistra, dove la luce abbagliante di un nuovo giorno penetrava con forza dalla finestra. Una figura scura, con indosso un cappotto pesante, sedeva sulla sedia, il volto nascosto nell’ombra. Mi chiesi, ancora prima di chi fosse, come riuscisse a rimanere vestito nell’aria soffocante di quella stanza.
– Chi sei? – gli chiesi con un filo di voce. Il silenzio era rotto solamente dai bip costanti dell’elettrocardiografo. Lui rimase immobile ed in silenzio per un tempo indefinibile, una sagoma scura sullo sfondo del cielo. Poi finalmente rispose: – La tua paura.
L’AEREO
L’aereo perse quota d’improvviso, gli sportelli per le mascherine d’ossigeno si aprirono come scherzi di carnevale, lo steward inciampò su qualcosa, capitombolando addosso al carrello dei rinfreschi. Le urla si levarono da ogni angolo del velivolo.
Nicola rimase pietrificato dal terrore, l’unico passeggero a bordo che aveva ancora la cintura allacciata, perché non si era mai fidato degli aerei. Un senso abbacinante di incredulità lo fulminò; il suo incubo peggiore stava per diventare realtà.
Ma per un inesplicabile capriccio del destino, non fu un incidente a reclamare la sua vita, ma il suo cuore, un attimo prima che l’aereo riprendesse quota.
ADDICTION
Gioele, tre anni e mezzo, tutto riccioli e sorrisi, si allungó sui piedini per afferrare il sacchetto di caramelle vicino al bollitore del té. Laura, la madre, era proprio dietro di lui, e osservava i movimenti del bambino come una scena al rallentatore. Ma la sensazione di pericolo di quell’innocuo gesto fu oscurata da mille pensieri; le nuove foto da caricare, il commento sagace di Valentina, un video dei Gossip da linkare sul proprio profilo e naturalmente le ultime da Farmville. Laura rimase impassibile per piú di cinque secondi, mentre le urla del piccolo Gioele cercavano di ricacciare indietro il dolore.
QUANDO SI SPENGONO LE LUCI
C’è un momento del giorno, anzi della notte, in cui, per come possano andare le cose, immancabilmente mi prende l’angoscia. Normalmente sopraggiunge verso le una, ma di sabato si arriva anche alle due e mezzo. È l’attimo in cui Aldo, proprietario del bar, abbassa le luci. L’ambiente, privo del neon del reparto paste e illuminato vagamente dai frigoriferi per le bibite gassate, perde di quella vitalità di cui si riempie sistematicamente ogni giorno. In quell’istante mi sento braccato, come se le ombre volessero farmi fuori. Così mi scuoto, indosso il cappotto e saluto.
Ma è dura trovare la via di casa.
Gano per 101 Parole
CIBO PAZZO
Florian rimase ad osservare il via vai del centro attraverso il vetro antiproiettile del ristorante, asciugando con gesti automatici i calici da vino bianco. Gli ultimi clienti, impellicciati e ingioiellati, lasciavano i tavoli per scomparire cinguettando nell’ascensore che li avrebbe portati nel garage-bunker del palazzo.
Florian si domandò che cosa facessero in quell’istante i suoi ex-compagni di scuola. Lui aveva lasciato al secondo anno e si era ritrovato a lavare i piatti in un ristorante, mentre gli altri puntavano alla carriera. Ma le scatolette e i fastfood avevano atrofizzato i loro cervelli…
Adesso vagavano senza meta insieme ai pazzi della strada.
IL TERAPISTA
Mirella veniva da me ogni venerdì pomeriggio, dopo il corso di danza. La facevo accomodare sul divano, mentre io rimanevo dietro la scrivania ad osservare dalla finestra i platani del viale. Mi parlava del lavoro che odiava, delle amiche gelose e del suo uomo che la tradiva. Alla fine della seduta scoppiava sempre a piangere, ed io accorrevo all’istante coi fazzolettini. La consolavo parlandole dei suoi progressi, poi fissava un nuovo appuntamento con la mia segretaria.
Sullo stesso divano, una sera di giugno, Mirella ed io facemmo l’amore. Non fu un gesto professionale, il mio, ma la feci sentire subito meglio.
101 Parole
L’ULTIMO TIRO DI DADO
ON AIR
Hai tutto, soldi, salute, bellezza, e una telecamera che ti fa entrare nelle case dell’intero paese. Sei l’esempio che ridicolizza l’eccezione, la bocca dalla quale pende l’umano ignaro, ed ogni volta che ti vede tu lo travolgi, con la tua bellezza di facciata, con le tue parole facili da masticare, con la tua innaturale sempre-giovinezza, immortalata da un click e due parole straniere; on air…
Ti guardo per un attimo dal vetro luminoso, col volume azzerato, mentre le tue labbra si muovono al ritmo di uno strano balletto. Inarco la testa, cerco di leggerti negli occhi, ma vedo solo il vuoto.
ESTATE 1987
Era l’estate di Zucchero e di The Final Countdown ed io ero poco più di un bambino, mentre lei sembrava già una donna, anche se aveva un anno meno di me. Rimanemmo a parlare fino a tardi di musica, di Marylin Monroe e dell’estate che finiva. Ci fu un momento in cui tutto parve fermarsi. Io la guardai, lei mi guardò e pensai che se non la baciavo adesso non l’avrei mai più baciata. Infatti andò proprio così.
Oggi la ricordo ogni volta che l’organo attacca le prime note di Hey Man…
…che sei solo come me, dall’altra parte della strada.
101
Ora che ho iniziato non posso fermarmi. È una corsa disperata contro questo tormento, una maledizione che fa fremere le mie dita sulla tastiera. Qualcosa si è insinuato dentro di me e so che nel momento in cui smetterò di battere su questi tasti, lui l’avrà vinta, almeno che non arrivi a centouno. Centuno è il traguardo, la meta più ambita, la salvezza. Sono già a sessantasette con questa, e continuo a contare…
È solo un gioco o sono impazzito? Non dovrei domandarmelo, eppure c’è qualcosa che non va.
Non mi devo distrarre… centouno, abbiamo detto. Ci siamo quasi…
Ma lo scrittore non riuscì mai a terminare la storia di 101 parole. Si fermò a quel “quasi”, la novanonevesima, e poi qualcosà lo ghermì, roteò gli occhi e si accasciò sulla sedia. Il cursore continuò a fargli l’occhiolino.
IL PAESE SENZA EROI
Nel paese senza eroi la gente vive serena raccontandosi un mucchio di storie. Neanche nelle storie ci sono eroi, perché nessuno sa cosa siano. Persone importanti? Valorosi guerrieri? Principesse temerarie? Ma forse esiste una spiegazione più semplice. In questo remoto paese dalle case piene di colori, tutti gli abitanti sono un poco eroi, e per esserlo non sentono il bisogno di sentirsi tali. Allora un bel giorno gli eroi hanno smesso di esistere. Ci sono uomini saggi, donne piene d’amore e bambini che fanno sogni stupendi.
E poi ci sono le zie…
…sono sempre loro che raccontano le favole più belle.
UN COLPETTINO
L’uomo sorseggiò piano il suo caffè, ché tanto fuori pioveva a dirotto e non aveva alcuna intenzione di bagnarsi. L’appuntamento era alle sette, ma per una volta potevano aspettalo. In tanti anni aveva sempre spaccato il minuto, ma da qualche giorno le cose erano cambiate. La sua vita era cambiata.
“Un colpettino” gli aveva detto il dottore. “Nulla di cui preoccuparsi, basta continuare con la terapia…” Lui non credeva alle medicine, ma fece come gli era stato ordinato. Il caffè gli lasciò un retrogusto cattivo. “Maledetto decaffeinato”, pensò. Ma poi guardò fuori, vide un raggio di sole e il retrogusto passò.
SE PROPRIO LA DEVI GIOCARE, GIOCALA SPORCA!
Il giocatore di biliardo mirò alla nove d’angolo con la sigaretta stretta tra i denti e tante goccioline di sudore che gli imperlavano la fronte. Sapeva che quel colpo poteva valergli molto più della vita. Il diavolo lo osservava dall’altro lato del tavolo verde, impegnato a lavorarsi col gessetto la punta della sua stecca. Per lui era solo una delle tante partite.
– Se la butto sono salvo, vero? – chiese l’uomo per l’ennesima volta.
– Per ora… – rispose ammiccando Belzebù.
Partì il colpo, la palla s’alzò inaspettatamente e colpì il demone in mezzo agli occhi lasciandolo in terra stecchito.
LA TITTA
La Titta si spogliò al lume della vecchia e sbilenca abat-jour del comò. Le ombre le nascondevano caritatevolmente le smagliature e le vene varicose. Vista di lato pareva ancora una leonessa, come a bei vecchi tempi…
– Gano, ti ricordi la prima volta che l’abbiamo fatto?
Io da sotto il lenzuolo ammiccai. – Certo, Tittina. Al pratone… La guardia giurata ci beccò sul più bello…
Poi si sfilò il reggipetto e si sdraiò accanto a me.
– Quanti anni son passati?
– Non pensarci piccola, vieni qui…
Da fuori ci arrivò la sirena di un’ambulanza, ma era ancora distante. Molto distante…
LA BALLERINA
Girava, saltava, si contorceva soltanto per me. In sogno veniva a trovarmi ogni volta che che lasciavo le porte della mente spalancate. Questo succedeva di solito quando non ne potevo più dell’ufficio e me ne andavo in campagna, a casa di Guglielmo. Lui mischiava fiori esotici a radici campestri. La tisana faceva rilassare ed apriva la mente, a quanto diceva il mio amico, ed allora arrivava la ballerina.
Potevo distinguere un arco dietro di lei, e più oltre una scura foresta. Sapevo che la foresta significava qualcosa di definitivo, ma non specificatamente qualcosa di brutto.
“Intratteniamoci insieme, fino a quando durerà…”
Jonathan Macini per La Giostra di Dante e 101 Parole
Illustrazione di Charles Huxley